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vedere dove Cynthia Walker aveva scritto i suoi libri. La signorina Annie le fa sempre entrare.
Finalmente queste oscure memorie cominciarono a diradarsi, mentre incrociavo a tarda notte l'Haight.
Ma altri pensieri, altrettanto oscuri, cominciarono a insinuarsi.
Perché diavolo avevo lasciato Alex e Faye così presto per andarmene a San Francisco? Più di una volta
mi avevano chiesto di stabilirmi al Sud, vicino a loro.
Ma io dovevo essere indipendente: per crescere, natu-ralmente. Ero spaventato dall'affetto che provavo
per Faye e Alex, dal fatto di sentirmi completamente a mio agio a casa loro. E come ero divenuto
indipendente? Dipingendo ragazzine in case vittoriane cadenti e piene di spifferi di San Francisco che mi
ricordavano la vecchia casa di mia madre a New Orleans?
Fu proprio qui all'Haight, in una casa vittoriana di Clayton Street, che la curatrice delle edizioni di mia
madre, tentando invano di convincermi a scrivere altri Cynthia Walker, scoprì i miei quadri e m'ingaggiò
per il mio primo libro per bambini.
Il ritratto di Faye che avevo lasciato sul muro di Alex è stato l'ultimo quadro di donna matura che ho
fatto.
Dimentica queste cose. Cacciale dalla mente come sei sempre stato capace di fare. E pensa
all'esaltazione che provi quando dipingi Belinda. Solo a quello.
Belinda.
Scesi lentamente attraverso l'Haight da Masonic a Stanyon cercandola su entrambi i lati della strada,
qualche volta bloccando il piccolo flusso di traffico finché qualcuno non mi suonava col clacson.
Il quartiere quella sera sembrava insolitamente squalli-do e claustrofobico. Vie troppo strette, case dai
bovindi trasandati e sbiaditi. Immondizia nelle cunette. Niente di idilliaco. Solo lo scalzo, il disperato, il
pazzo.
Feci ritorno a Masonic. E poi giù a Stanyon e lungo i giardini pubblici, osservando con attenzione ogni
figura femminile che passava.
Ero sobrio e lucido, ora. Dovevo aver fatto il giro sei volte, prima che una ragazzina con un aspetto da
far paura si slanciasse dritto su di me a un semaforo di Masonic e s'appoggiasse alla macchina per
baciarmi.
«Belinda!».
Eccola lì, sotto un guazzabuglio di trucco.
«Che te ne fai quaggiù», domandò. Labbra rosso san-gue, cerchi di nero attorno agli occhi, mascara
color oro. I suoi capelli erano una cascata di chiodi di gel cremisi. Decisamente orribili. Mi piacevano.
«Ti sto cercando», dissi. «Sali in macchina».
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Osservai la sua corsa attorno al cofano. Un orrido pellicciotto di leopardo, tacchi di strass. Solo la borsa
mi era familiare. Conciata così avrei potuto sorpassarla mille volte e non vederla mai.
Scivolò sul sedile di pelle accanto a me e mi gettò di nuovo le braccia al collo. Cambiai marcia, ma non
riuscii lo stesso a vedere niente.
«Questa macchina è il massimo», disse. «Scommetto che è vecchia quanto te».
«Non proprio», borbottai.
Era una MG-TD del 1954, la vecchia decappottabile con la ruota di scorta sul cofano posteriore, un
articolo da collezionista, come i dannati giocattoli, e mi eccitava che le piacesse.
In realtà, non riuscivo a credere che lei fosse di nuovo con me.
Svoltai bruscamente verso Masonic e mi diressi su in collina verso la Diciassettesima.
«Allora, dove stiamo andando?», domandò lei. «A casa tua?».
Il profumo doveva essere Tabu, Ambush, o qualcosa del genere. Vero profumo da donna. Come i
grandi orecchini di strass e il vestito nero perlinato. Ma lei si stava applicando con determinazione su una
gomma da masticare che odora-va deliziosamente di menta.
«Sì, a casa mia», dissi. «Ti devo mostrare alcuni quadri che ho fatto. Perché non facciamo un salto al tuo
monoloca-le; ti prendi la tua roba, così puoi stare un po' da me? Sempre che i miei quadri non ti facciano
andare in bestia».
«Cattive notizie da quel posto», disse lei. Fece scoppia-re improvvisamente la gomma, poi altre due
volte. (Sussul-tai). «Quel tipo e la sua signora della camera sul retro si stanno accapigliando. Qualcuno
potrebbe chiamare la poli-zia, se non la smettono. Lasciamo perdere, d'accordo? Ho già il mio
spazzolino. Sono stata da te un paio d'ore fa, sai. Cinque dollari di taxi. Hai preso il biglietto che t'ho
la-sciato?».
«No. Quand'è che mi dai indirizzo e numero di telefo-no?».
«Mai», disse lei. «Ma ora sono qui, non è vero?». Fece scoppiare la sua gomma tre volte
consecutivamente. «Ho appena imparato a farlo. Non riesco ancora a fare la bolla».
«È affascinante», dissi. «Da chi l'hai imparato, da un cameriere di drive-in? No, non me lo dire, dalla
stessa persona che t'insegnò il trucco della scatola di minerva».
Lei rise nel più dolce dei modi. Poi mi baciò sulla guancia, quindi sulla bocca. In realtà, mi avvolse in una
stretta al tempo stesso pungente e morbida, con i capelli ad aculei e la piccola succosa bocca e le ciglia
come filo metallico e le guance come pesche.
«Fermati», dissi. «Stiamo andando fuori strada». Scen-demmo giù per la Diciassettesima Strada verso
Market, e casa mia era all'incirca un isolato più avanti. «E chissà, potresti proprio infuriarti quando ti vedi
nei quadri che ho dipinti».
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5.
Mi rendevo conto che avrei dovuto portarla dritto al piano superiore, sull'attico, e confessare di averla
dipinta nuda, con la solenne promessa che nessuno avrebbe visto quei quadri.
(Hai ragione, Alex).
Ma allorquando lei mi precedette nel polveroso soggior-no, avvenne una specie d'incantesimo. Un po' di
luce entrava dall'ingresso e dalla cucina sul retro. A parte quella, era tutto buio e i giocattoli sembravano
fantasmi. E lei era una strega, con le sue nere calze merlettate e i luccicanti tacchi di strass, con i suoi
capelli acuminati e la sua faccia truccata. Toccò il tetto della casa della bambola e poi s'inginocchiò per
mettere in moto il treno sul binario. Era più bello di quando aveva indossato la camicia da notte.
Si liberò dell'orribile pellicciotto di finto leopardo e s'arrampicò sul cavallo da giostra. Il vecchio, nero
vestito da ragazzina che indossava era scollato, e sulle spalle aveva soltanto le bretelle. Gli strati dell'orlo
e le perline tremolava-no leggermente.
Si raccolse in grembo l'abito e incrociò le caviglie. Poi appoggiò la testa contro il palo d'ottone,
stringendolo più in alto con le dita. Scivolò con lo sguardo da un oggetto all'altro della camera
nell'identico modo in cui spesso face-vo io.
Aveva assunta l'identica posa di quando l'avevo ritratta in camicia da notte. E di quando l'avevo ritratta
nuda.
«Non muoverti», dissi.
Premetti il piccolo interruttore della luce sopra il caval-lo. I suoi occhi mi seguivano sognanti. «Non
muoverti», dissi di nuovo, osservando la luce sul suo collo, la curva del suo mento, la piccola carnosa
fenditura del seno sotto la cavità del collo. L'oro le luccicava sulle palpebre e sulle ciglia. I suoi occhi,
orlati di mascara color oro, erano blu come sempre.
Andai a prendere la macchina fotografica.
La ripresi da due diverse angolazioni. Lei era completa-mente immobile. Tuttavia non rigida. Lo divenne
appena un po' mentre scattavo le foto, con gli occhi che ogni tanto mi seguivano, proprio come volevo
che facesse quando le giravo intorno.
Rimasi ancora a guardarla.
«Ti vuoi togliere il vestito?», le chiesi.
«Pensavo che non me l'avresti mai domandato», disse lei. Piccolo tocco di sarcasmo.
«Nessuno vedrà mai queste foto. Lo giuro».
Rise. «Certo. Questa però l'ho già sentita».
«No, dico sul serio», dissi.
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Mi guardò con espressione assente, poi continuò:
«Sarebbe di uno squallore tremendo, non è vero?».
Non dissi nulla.
Scaraventò lontano le scarpe, scivolò sulla moquette rimanendo in posizione eretta e si sfilò il vestito
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